danni pari ai dazi di Trump » LO_SPECIALE


Quest’anno si lavorerà 251 giorni, due in meno rispetto al 2024 che, comunque, era un anno bisestile. In termini di Pil, questo costerà, in linea teorica, 12 miliardi di euro. Un impatto economico equivalente a quello che il Paese potrebbe subire dall’eventuale introduzione dei dazi da parte dell’amministrazione Trump. Comunque sia, a livello europeo gli italiani sono annoverati tra i più stakanovisti: secondo l’Ocse, infatti, solo la Grecia, la Polonia, la Repubblica Ceca e l’Estonia registrano un numero di ore lavorate per occupato all’anno superiore al Belpaese.

Con una settimana di lavoro in più, si guadagnerebbe un punto di Pil. Nei 20 giorni circa che quest’anno sono intercorsi tra l’inizio delle festività pasquali e la fine del ponte del 1° maggio, tante fabbriche, altrettanti magazzini, negozi e uffici si sono svuotati, continuando l’attività al rallentatore. Sicuramente negli alberghi, nei ristoranti e nelle realtà aziendali legate al settore turistico si è lavorato a pieno regime, ma nei comparti manifatturieri e nei servizi si è notata una marcata flessione della produttività. Non sono pochi i dipendenti che hanno deciso di concentrare una parte delle ferie proprio in queste settimane, contribuendo a sguarnire gli organici nei comparti in cui operano, in particolare nell’industria. È chiaro: le feste comandate sono inviolabili, ma il problema sussiste e ha delle implicazioni sulla produzione della ricchezza del nostro Paese. Un problema che il legislatore ha cominciato ad affrontare addirittura nel 1977, quando l’allora governo Andreotti III decise di cancellare alcune feste religiose, come l’Epifania, San Giuseppe, l’Ascensione, il Corpus Domini, San Giovanni e Paolo, San Francesco. Più recentemente, l’esecutivo di Silvio Berlusconi nel 2004, poi in quello del 2011 e successivamente anche quello guidato da Mario Monti cercarono di mettere mano alla situazione senza riuscirci. La Cgia ha stimato che se tra feste e giorni pre-festivi si recuperasse una settimana di lavoro all’anno, si guadagnerebbe un punto di Pil che, in termini assoluti, ammonterebbe a circa 22 miliardi di euro.

Milano, Bolzano e Bologna le aree più ricche. Le previsioni 2025 dicono che l’area provinciale con il valore aggiunto per abitante al giorno più elevato è Milano. Nella Città metropolitana l’importo corrisponde a 184,9 euro. Seguono Bolzano con 154,1, Bologna con 127,6, Roma con 122 e Modena con 121,3, Aosta con 120,4, Firenze con 119,8, Trento con 119,5, Parma con 115,4 e Reggio Emilia con 113,7. Nella parte bassa della classifica, invece, si ci sono Enna con un valore aggiunto pro capite di 53,5 euro per abitante, Agrigento con 52,8, Vibo Valentia con 51,5, Sud Sardegna con 50,8, Cosenza con 50,7 e, infine, Barletta-Andria-Trani con 50,6. A livello regionale, infine, la realtà più ricca è il Trentino Alto Adige con un Pil per abitante giornaliero di 152,8 euro. Seguono i residenti della Lombardia con 140,8, quelli della Valle d’Aosta con 134,5, quelli dell’Emilia Romagna con 123,8 e del Lazio con 121,3.

Tredici province su 20 sono collocate a Nordest. A parte la Città metropolitana di Milano che, ricorda la Cgia, conta oltre 3,2 milioni di abitanti ed è considerata la più importante area industriale e finanziaria del Paese, nelle prime 20 posizioni della classifica nazionale solo quattro province sono ubicate a Nordovest (Aosta, Genova, Brescia e Bergamo), mentre ben 13 sono collocate a Nordest (Bolzano, Bologna, Modena, Trento, Parma, Reggio Emilia, Vicenza, Trieste, Padova, Verona, Treviso, Belluno e Piacenza). Anche questa graduatoria dimostra come le realtà geografiche dove la presenza delle Pmi è più diffusa, sono anche le aree più virtuose dal punto di vista economico.

Non ci sono più le grandi imprese.  L’Italia è un Paese che non dispone più di grandissime imprese e fatica ad attrarre nel proprio territorio le multinazionali straniere. Con un deficit infrastrutturale molto diffuso soprattutto nel Mezzogiorno, una giustizia civile lenta, una Pubblica amministrazione che registra tempi di pagamento tra i più lunghi di tutta la Ue e con un carico fiscale e burocratico da record, fare impresa in Italia è molto difficile, quasi proibitivo. Non per le nostre Pmi: nonostante tutti questi ostacoli continuano a ottenere risultati economici e occupazionali straordinari. Certo, i limiti di questo sistema produttivo sono noti a tutti. Sono realtà spesso composte da micro e Pmi ad alta intensità di lavoro che, mediamente, registrano livelli di produttività non elevatissimi, erogano retribuzioni più contenute delle aziende di dimensioni superiori, condizionando così l’entità dei consumi, e presentano livelli di investimenti in ricerca e sviluppo inferiori a quelli in capo alle grandi realtà produttive.



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