C’è un nemico silenzioso, impalpabile, ma terribilmente efficace nel rallentare la crescita dell’economia italiana: la burocrazia. Un sistema farraginoso, costoso e spesso incomprensibile che ogni anno prosciuga almeno 80 miliardi di euro dalle casse delle piccole e medie imprese (Pmi). È la stima choc contenuta nell’ultima analisi dell’Ufficio studi della Cgia di Mestre, che ha acceso i riflettori su un malessere strutturale del nostro Paese: un eccesso di norme, adempimenti, autorizzazioni e moduli che ‘soffoca’ in particolare le microimprese, vera spina dorsale del tessuto produttivo italiano. Il paradosso è che, mentre si discute di competitività, digitalizzazione e semplificazione, molti imprenditori sono ancora costretti a perdere ore preziose tra file agli sportelli pubblici, richieste ridondanti e iter procedurali spesso inutilmente complessi. Tutto ciò si traduce in un costo elevatissimo: risorse umane ed economiche che potrebbero essere investite nella produzione, nell’innovazione, nell’export o nell’occupazione vengono invece assorbite dal “mostro” burocratico.
La Cgia è netta nel suo giudizio: “La burocrazia è il vero freno allo sviluppo delle imprese italiane”. Non si tratta di un’impressione, ma di una realtà misurabile. Il tempo impiegato per ottenere autorizzazioni, permessi o anche solo una risposta da parte della Pubblica amministrazione italiana è tra i più lunghi d’Europa. E la causa principale è duplice: da un lato, un quadro normativo estremamente complesso, stratificato da decenni di leggi, decreti e regolamenti spesso in contraddizione tra loro; dall’altro, una digitalizzazione dei servizi pubblici ancora troppo lenta e disomogenea.
Una giungla normativa
Secondo i dati, circa il 90% delle imprese italiane ha almeno un dipendente dedicato esclusivamente agli adempimenti normativi. Ma il dato più allarmante è che il 24% degli imprenditori impiega oltre il 10% del personale solo per gestire la burocrazia. In nessun altro grande Paese dell’Unione Europea si registra una simile distorsione: la media Ue è del 17%, mentre in Francia e Spagna il dato scende al 14% e in Germania all’11%. Un gap che si traduce in una perdita di competitività e in una pressione psicologica non trascurabile su chi ogni giorno cerca di far impresa in Italia. Una prima risposta è arrivata ad aprile, quando il governo ha approvato un disegno di legge per l’abrogazione di oltre 30.700 norme risalenti al periodo tra il 1861 e il 1946. Un’operazione di “potatura legislativa” che dovrebbe ridurre del 28% il cosiddetto “stock normativo”. Un passo nella giusta direzione, certo, ma ancora insufficiente rispetto alle esigenze di un sistema economico che chiede regole chiare, stabili e facili da applicare. La vera sfida sarà applicare questa semplificazione anche alla normativa vigente e ai processi autorizzativi in tempo reale, senza creare nuovi strati burocratici in futuro.
È doveroso non generalizzare. L’Italia può vantare punte di eccellenza nella sua macchina pubblica: la sanità, l’università, la sicurezza e il sistema della ricerca sono riconosciuti come solidi e innovativi a livello internazionale. Ma il problema risiede nella media delle prestazioni e nelle enormi disparità territoriali, in particolare tra Nord e Sud.
Gravi disfunzioni
L’indagine dell’Università di Göteborg, che valuta la qualità istituzionale delle Pa europee, mette nero su bianco una verità scomoda: le regioni italiane occupano posizioni molto basse nella classifica europea. Solo il Friuli Venezia Giulia figura tra le prime 100 (63° posto), mentre Trento, Liguria e Bolzano arrancano. La situazione peggiora drammaticamente al Sud: la Puglia è al 195° posto, la Calabria al 197°, il Molise al 207° e la Sicilia al 208° su 210 regioni europee. Un dato che racconta di una Pa a due velocità, dove la lentezza, l’inefficienza e la mancanza di strumenti moderni rappresentano una barriera quotidiana alla crescita lenta incide anche sulla fiducia dei cittadini nelle istituzioni e sullo stesso clima economico del Paese.
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